2019 – eye verbal motor
2019 – fuoco fatuo
2018 – ROOM 60
2017 – una storia privata
2017 – If but I can explain
2017 – il pasto bianco
2016 – ring around
2016 – maihome
2015 – je t'aime
2015 – interno 8 – La fleur coupée
2015 – rose
2015 – le ceremonie
2015 – the most beautiful woman
2014 – still life
2014 – carla
2014 – se io fossi lucida
2013 – my july
2013 – celeste
2012 – stare
2012 – giovedì
celeste
fotografia su ceramica 50×40 cm 20×15 cm
.
Quando Carolee Schneemann, nel 1975, proponeva a un pubblico di sole donne la performance “Interior Scroll”, dalla propria vagina non estraeva solo sangue. La violenta e simbolica azione partoriva, insieme al siero rosso, un rotolo di carta dove si parlava del femminicidio, inteso come esclusione, delle donne nella storia dell’arte. Ma il gesto, al di là dei contenuti, ha costituito il segno di un autentico denudamento interiore. L’utero di Celeste parla solo il linguaggio del sangue e del vuoto. Quindi del silenzio, inteso come nulla. In una complessa installazione, che costituisce con le fasi compositive una concezione performativa dove l’artista stessa pone sotto i riflettori non solo il proprio corpo ma la fatica dell’azione reiterata, Silvia Calcagno costruisce un ulteriore tassello alla propria riflessione sul sottile filo che separa vita e morte. Il vuoto è l’elemento predominante, protagonista, secondo un taglio fotografico che relega il soggetto in un piano secondo. Come avviene nei video di Martin Creed, “Sick Film”, 2007, dove una serie di ragazze e ragazzi entrano di lato nell’inquadratura di una telecamera e vomitano lasciando la maggior parte del campo vuota, dominata dal bianco, così il corpo di Celeste costituisce un elemento secondario al nulla. Gli scatti, che acquistano crudezza nel passaggio su ceramica e nelle cotture a alta temperatura corrodendo una linearità che pur sopravvive con una certa purezza, sono addolciti dal morbido movimento dei capelli. Come una nuova Eva, Celeste si copre le nudità con le mani che non possono arginare il pianto del suo utero. Il peccato originale di questa moderna prima donna sta nel corpo: le membra, scandite dai ritmi biologici, vibrano alla violenza della natura. Generando rabbia, tanto da contorcere la carne delle cosce tra le dita, tra le unghie. La stessa rabbia che costituisce il leit motiv del video che completa l’installazione, dove una donna, di schiena, lava a ritmi sempre più rapidi e nervosi un bicchiere che poggia con forza sullo scolapiatti.
Il contesto è scarno, ancora una volta vuoto. L’inquadratura, cruda come in un filmato della Nouvelle Vague, è sottoposto a un’accelerazione scandita da un audio dove la voce di donna ripete in maniera impersonale una serie di azioni. Senza un nuovo Adamo, Eva Celeste è divorata dal nulla che, a differenza dei lavori precedenti, da “My July” a “Giovedì”, non corrode soltanto l’Io esistenziale, l’Io avvolto da una fragilità ontologica, ma la carne stessa. Il sangue non è catartico, come negli atti sacrificali delle Tragedie greche: è colpa. Una colpa che genera rabbia. Lasciando quel che resta di Celeste così felice e così sola.
Ma il vuoto divorò la nuova Eva di Silvia Campese
